sabato 30 settembre 2017

L’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD



Oggi ho partecipato alla conferenza organizzata dal Gruppo PD della Camera, dal titolo "Il PD per gli italiani all’estero. Una legislature feconda”.

Mi era stato chiesto di riflettere sul tema "L’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD". L'ho fatto dicendo queste cose, per chi avesse voglia ascoltarle o leggerle.

Per vedere l'audiovideo dell'intervento riportato sotto clicca qui

Buongiorno.
Ringrazio il Gruppo PD alla Camera e gli organizzatori di questo Congegno.
Mi fa piacere avere l’opportunità di riflettere “sull’evolversi delle comunità italiane nel mondo in rapporto al PD”.

Non è un tema solo politico ed elettorale.
È anche culturale e nazionale, nel senso di interesse e identità nazionale.

Credo, infatti, che da questo rapporto con il Partito cardine della nostra democrazia e di ogni snodo di Governo, passi il destino delle nostre comunità e il loro rapporto con l’Italia.

Già nel 2011, in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, come PD e grazie all’impulso dell’allora presidente del Centro studi Gianni Cuperlo, tenemmo il partecipatissimo seminario “Una grande Italia oltre l'Italia”, nel quale tentammo una riflessione sul ruolo delle nostre comunità nel mondo e della loro evoluzione in rapporto alla storia d’Italia.

Spiegammo quanto l’opera di un grande Partito che raccoglie il meglio della tradizione politica italiana fosse strumento determinante per il destino del Paese e delle nostre comunità e, in questa direzione, ci demmo degli obiettivi di Governo per la successiva legislatura, quella che sta per terminare.

Obiettivi che sono stati in parte realizzati grazie al nostro Partito, ai gruppi di Camera e Senato e ai governi di questi anni.
Ma di quella parte di obiettivi che rappresentavano l’emergenza, la quotidianità; interventi non strutturali, senza effetti nel lungo periodo.

Interventi frutto di un progetto strategico di Stato in una prospettiva di lungo termine.

Tornerò alla fine a riprendere questo punto e il ruolo del PD in rapporto alle nostre comunità e al loro destino, rispetto all’Italia.

Ci arriverò attraverso un excursus storico e quasi per titoli, visti i tempi.

La nostra emigrazione storica, a partire da fine Ottocento, è stata fenomeno di massa: una diaspora quasi unica nella storia dell’umanità se si considera il complesso dei fattori: volume di partenze; continuità nel tempo di queste partenze; dispersione planetaria dei nostri migranti.

E oggi il fenomeno non si è arrestato, poiché continuiamo a essere Paese di emigrazione, tanto che il saldo tra immigrati ed emigrati è ancora a favore dei secondi e le cifre che riguardano gli emigrati sono tornate ai livelli degli anni dell’emigrazione del Dopoguerra, soprattutto se aggiungiamo anche coloro che partono senza iscriversi all’AIRE.

L’antica emigrazione storica, pur essendo fin dall’inizio e quasi esclusivamente una emigrazione di manodopera non qualificata, pur disperdendosi in gran parte oltre oceano, non disponendo di sufficienti  risorse economiche, di strumenti tecnologici e mezzi di trasporto veloce (aerei, e treni a grande velocità), ha sempre tenuto un rapporto strettissimo con la madrepatria e ha sempre avvertito e praticato con forza il senso di comunità.

Intorno a questo sentimento di appartenenza, ha costruito la propria identità cosmopolìta, l’identità “italica” (ne hanno parlato egregiamente Piero Bassetti nei suoi studi e Fabio Porta in questo convegno), ha costruito un patrimonio culturale e perfino immobiliare fatto di migliaia di splendidi edifici sedi di tante “Casa Italia”, di centri culturali e sportivi, di una miriade di sedi di associazioni regionali, provinciali e cittadine.

Ha costruito società di mutuo soccorso, si è costituita in organizzazioni sindacali e di patronato, ha lavorato a difendere da sé, soprattutto dove lo Stato non arrivava, i propri diritti di lavoratori, di perseguitati, di discriminati.

Ha costruito i propri organismi di rappresentanza.
Tutto intorno a un senso di comunità forte e radicato.

Ha costruito e spesso guidato lotte sindacali e di rivendicazione di diritti dell’intero mondo del lavoro che hanno trascinato movimenti operai e di masse di paesi come gli USA:

basti ricordare ciò che fece Arturo Giovannitti all’inizio del Novecento e di come la sua attività di ispirazione socialista e anarco-sindacalista e la sua vicenda giudiziaria anticiparono di circa quindici anni quelle più note di Sacco e Vanzetti, anche sul piano della mobilitazione internazionale.

Allo stesso tempo ha costruito imperi economici che hanno segnato perfino la storia del sistema bancario:
si pensi alla vicenda di Amedeo Giannini, che fonda negli USA la Bank of Italy, per consentire agli emigrati italiani di spedire i risparmi ai propri familiari in Italia a costi bassissimi.

Che elabora un sistema di prestiti sulla parola ai più poveri – italiani e non – colpiti dal catastrofico terremoto di San Francisco del 1906 mettendo insieme sentimento di comunità e spirito solidaristico, creando un sistema fiduciario che porta anche coloro che non hanno mai affidato i propri risparmi a una banca a fidarsi di lui – e solo di lui, dell’italiano – per i propri investimenti dopo la ricostruzione.

Quella banca oggi si chiama Bank of America, nata come banca degli ultimi e divenuta banca di tutti, oltre che la più grande banca del mondo.

Nata dall’idea di un italiano e dal suo sentirsi italiano e parte di una comunità.

E anche durante il Fascismo, quando Stato e Partito nazionale Fascista coincidevano, quando gli esuli politici si rifugiavano in Svizzera e il mondo associativo e solidaristico si costituiva in “Colonie libere”, per sottolineare che il mondo associativo italiano non era fascistizzabile, ma era appunto libero (libero significava ovviamente di Sinistra, perché opposto al Fascismo), il vero tratto identitario italiano e quello sociale, antifascista e di Sinistra caratterizzavano le nostre comunità e incrociavano ancora i destini della Sinistra e delle nostre comunità con l’Italia.

Poi venne il secondo Dopoguerra e l’era degasperiana e democristiana.
Periodo in cui l’Italia entra in nuovo sistema costituzionale, antifascista, caratterizzato dalla dialettica democratica tra mondo democristiano e cattolico e mondo socialista e comunista.

Una dialettica che plasma anche le nostre comunità tra, da una parte,  il PCI e il PSI, le gradi forze sindacali e il mondo associativo che vi ruotano intorno e dall’altra la DC, la Chiesa e il mondo cattolico.

Ma è ancora il mondo del sociale, di ispirazione cristiana o di matrice marxista, che fa la politica e organizza le nostre comunità, da Marcinelle all’Australia, da Mattmark all’Argentina, da Lussemburgo all’Uruguay fino a Berlino.

Già Berlino!
È quella città che, a mio modesto parere, segna nell’89 lo spartiacque nell’evoluzione dei rapporti tra comunità all’estero e partiti, quindi con la madrepatria.

Per molto tempo, durante il fascismo e soprattutto dal secondo Dopoguerra e fino all’89, l’Italia aveva riflettuto, pur con fasi alterne e con approcci diversi, su cosa fossero e come andassero inquadrate le nostre comunità nel mondo, come potevano rapportarsi al sistema Paese.

Nell’Italia democristiana, erano perfettamente inquadrati e incasellati e costituivano un serbatoio economico di rimesse che servivano per finanziare l’ammodernamento del Paese e molto altro.

Ci piaccia o no. Non importa. Erano tuttavia inquadrati in una precisa visione dallo Stato.

E ci furono precisi momenti nei quali lo Stato – e poi a scalare i Partiti nella propria dialettica e diversa visione del mondo – rifletteva su queste comunità, sul loro rapporto con l’Italia e quindi sulle politiche da programmare per questo universo.

Alcuni di questi importanti momenti furono le Conferenze nazionali per l’emigrazione. La prima si tenne a Roma nel 1975 e la seconda nel 1988.

In quell’occasione persino Papa Giovanni Paolo II ricevette i delegati esteri e tenne un importante discorso, ricordando l’opera della Chiesa verso gli emigrati e le figure di monsignor Geremia Bonomelli, Giovanni Scalabrini e santa Francesca Cabrini (della quale quest’anno ricade il centenario della morte).
 
Lo fece in continuità con l’enciclica di Paolo VI Populorum progressio, nonostante i tempi mutati, sottolineando l’arrivo di una “legislazione nazionale e internazionale che sancisce i fondamentali diritti dei lavoratori, tra cui il diritto al ricongiungimento con i propri familiari, il diritto di prendere parte alla vita sociale, sindacale e, almeno parzialmente, a quella politica”.

Sottolineava come “l’uomo [sia] l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” e che dovesse essere “l’economia a doversi adattare alle esigenze della persona e alle sue forme di vita e non viceversa”.

E il Papa si compiaceva del fatto che quelle sue preoccupazioni fossero vivamente sentite e tenute presenti nell’impegno sociale, sindacale e politico degli emigrati.

Aggiungeva anche “la convinzione che alcuni problemi, divenuti planetari, hanno bisogno di ampia solidarietà, e che tante soluzioni sono possibili soltanto con politiche che superino le barriere nazionali”: cosa che “giova molto alle cause dei migranti”.
Chiudeva sugli immigrati del Terzo Mondo e i profughi, quasi profetizzando come “a lungo termine nessun Paese benestante potrà difendersi dall’assalto di tanti uomini che hanno poco o nulla per vivere”, chiedendo di attrezzarsi per una “ordinata e rispettosa convivenza di diversi gruppi etnici e di diverse razze”.
E poi esortava le istituzioni a “intensificare ogni sforzo teso a coordinare le iniziative, a finalizzare sempre meglio gli interventi”.
Tutta questa elaborazione di tradizione cristiana, questa riflessione voluta dai Governi degli anni 70 e 80, trovava eco in un tratto sociale e solidaristico, di comunità, anche nelle conferenze sull’emigrazione del PCI, nell’opera e nei discorsi di Carlo Levi e Paolo Cinanni, nell’elaborazione di tradizione marxista.

L’incontro – e persino lo scontro – tra queste due anime, la riflessione comune in importanti momenti della storia nazionale, sfociava poi nell’individuazione di una politica pubblica per l’emigrazione rispetto alla quale i singoli Partiti potevano confrontarsi in termini elettorali.
Poi venne, appunto, Berlino e il mondo cambiò.
Come cambiò l’Italia e la storia di DC e PCI.
Arrivò, subito dopo, Tangentopoli e fece irruzione sulla scena Berlusconi.

Da qual momento in poi, a me pare, i fili tra l’Italia e le sue comunità nel mondo sono andati progressivamente assottigliandosi.

Ciò è avvenuto, paradossalmente, nel momento in cui forse c’erano da trarre i maggiori frutti di questa nostra storia di esodi.

L’elaborazione si è un po’ persa, il riassetto dello Stato non ha previsto un pensiero e una seria politica pubblica verso gli italiani nel mondo.

Tra ’96 e 2001, anche grazie all’impulso di Piero Fassino, allora sottosegretario agli esteri e di Mirko Tremaglia, si è arrivati all’introduzione della rappresentanza parlamentare estera e poi al voto per corrispondenza, obiettivi rivendicati nei decenni precedenti da tutto il mondo dell’emigrazione e riconosciuti dalla precedente Conferenza Nazionale dell’88.

Ma all’inizio degli anni 2000 si è anche fermata la riflessione e l’attenzione pubblica dello Stato, come se l’introduzione della Circoscrizione Estero e dei parlamentari, da soli, potessero bastare.

Condannando così all’isolamento gli stessi Parlamentari.

Gli ultimi tentativi di una riflessione complessiva di Stato furono la “Conferenza dei parlamentari di origine italiana nel mondo” del novembre 2000, e la successiva prima Conferenza degli italiani nel mondo del dicembre dello stesso anno, sotto lo slogan di “emigrazione come risorsa”.

Intuizione valida, ma poco praticata.

Da allora il mondo ha continuato a cambiare più velocemente di quanto potessimo pensare, le nostre comunità sono ormai molto diverse socialmente, economicamente, culturalmente da quelle che avevamo di fronte quasi 20 anni fa.

E gli stessi partiti italiani sono del tutto diversi.

L’unico filo comune che lega l’evoluzione delle nostre comunità allo Stato italiano è la tradizione popolare, culturale e sociale frutto delle ispirazioni cristiana e socialista confluite nel PD.

Ecco perché, se davvero oggi riteniamo di essere l’architrave democratico del Paese, anche quello sparso nel mondo, come Partito Democratico abbiamo la responsabilità e il dovere di passare dalla fase delle politiche di emergenza, della quotidianità e degli interventi a breve termine, a una politica di adeguamento e di ripensamento complessivo delle nostre composite comunità e del loro rapporto con il Paese, in termini di complessità, sussidiarietà, integrazione locale, modernità e impresa etica.

Dobbiamo farlo stimolando la riflessione da principale forza di Governo, da reale forza di rappresentanza dell’universo italiano all’estero capace di tenere insieme vecchie e nuove migrazioni, tradizione e nuovi bisogni, opportunità e innovazione.

Anche sulla scia di quanto detto ieri da Marina Sereni.

Dovremmo farlo mettendo nel nostro programma per la prossima legislatura una nuova Conferenza sugli italiani nel mondo – o meglio sugli italici e sui nuovi giovani migranti – da impegnarci a convocare già nel 2018. (Proprio quella dei giovani di qualche anno fa aveva dato buone speranze, ma fu poi abbandonata).

Una conferenza istituzionale, che veda la partecipazione di Presidenza della Repubblica, presidenze di Camera e Senato e Ministero degli esteri.
Una Conferenza nazionale che ridia al Paese una visione complessiva dello Stato verso le nostre comunità, che tra l’altro sono cresciute, in un decennio, di oltre 1,5 milioni di persone e che, probabilmente, continueranno a crescere.

Se non lo faremo, rimarremo nel guado nel quale siamo da molti anni, vanificando anche l’introduzione della Circoscrizione estero che ormai ha compiuto undici anni.

Se lo faremo potremo rafforzare quei fili assottigliati che ci legano a quel mondo che ho tentato di riassumere e magari a capire meglio, proprio attraverso l’emigrazione, cosa siamo e come possiamo evolvere come Sistema Paese.

Ultima nota.
ATTENZIONE! ATTENZIONE!
Lo dico con la solennità che la cosa merita: il PD è stato in questi suoi dieci anni di vita l’erede di quella tradizione cristiana e socialista a cui ho accennato e l’architrave politico e democratico nelle nostre comunità all’estero.

È stato il Partito che ha saputo tenere insieme quell’universo vario di mondo politico di centrosinistra, di mondo sindacale, di realtà associative laiche e cattoliche, di impresa cooperativa.

Lo è stato fino al 2013.
Oggi rischia l’isolamento, rischia di arrivare al 2018 sfibrato e alleggerito, non più punto di riferimento e collante delle nostre collettività e delle nostre migliori tradizioni e realtà associative, ma collettore di rabbie, frustrazioni e generatore di divisioni del nostro stesso campo.

Sarebbe una disfatta non solo per il PD, ma per le altre forze di Sinistra, per le tradizioni che ho provato a raccontare, in definitiva, per le nostre comunità.

Ecco perché, dicevo all’inizio, dal rapporto tra comunità italiane nel mondo e PD passa in buona parte il destino delle nostre stesse comunità e il loro rapporto con l’Italia.

Facciamo di tutto perché ciò non avvenga.
E chi ha ruoli anche all’estero, quanto più importanti, non li usi per esercitare prepotenza e coercizione, che umiliano e dividono, perché ha maggiori e più importanti responsabilità per esercitare dialogo e unità nel PD e nel centrosinistra.

e lancio un appello anche a Piero Fassino, che questo mondo conosce e tanto ha saputo fare da Segretario dei DS in termini di dialogo politico paziente, di cucitura ampia e articolata, di alleanze politiche, di costruzione programmatica e culturale: elementi oggi molto carenti.

Gli dico: facciamo di tutto per tenere insieme il PD e frenare le fuoriuscite che sarebbero un disastro culturale, politico ed elettorale.

Fuoriuscite oggi sempre più probabili da parte di tanti che vengono quotidianamente additati di non essere unitari, di criticare, di essere “gufi rosiconi”, quando andrebbero invece coinvolti e responsabilizzati a ogni livello.

Proviamo, invece, a unire il PD condividendo ruoli e responsabilità per lavorare tutti a recuperare un pensiero complessivo, organico e nella tradizione del nostro mondo e sul nostro mondo.

E facciamolo anche impegnandoci a mettere in programma, già alla Conferenza programmatica, la convocazione istituzionale di una nuova Conferenza degli italici e della nuova emigrazione.

Proviamo, quindi, a lanciare il cuore tanto in alto quanto alto è l’ostacolo che ci si presenta nel 2018.

Anche così io ho voluto cogliere ieri le parole sagge di Marina Sereni e oggi quelle di Marco Fedi.

In questo senso faccio ancora gli auguri ad Anna Grassellino, affinché possa riuscirci meglio di come abbiamo fatto fin qui.

Grazie a tutti e buon lavoro.

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